Due grandi eredità spirituali – quella di Madre Eugenia Menni e di Giuseppe Camadini – vivono ancora oggi nell’anima di Poliambulanza. L’avvocato Graziano Tarantini racconta come questi incontri abbiano segnato la sua vita e contribuito a dare forma a una cultura della cura che unisce bellezza, accoglienza e visione sociale.

Ci sono incontri che non si dimenticano. Per Graziano Tarantini, avvocato e figura storica dell’impegno sociale a Brescia, Poliambulanza non è solo un luogo di cura, ma il frutto di un legame umano e spirituale con due persone straordinarie: Madre Eugenia Menni e il notaio Giuseppe Camadini. «Io sono arrivato a Brescia nel 1986: non conoscevo nessuno. Eppure due personalità così imponenti si sono affezionate a me. Per me hanno contato più di tutto».
Quella di Tarantini è una storia fatta di concretezza, carisma e incontri profetici. Appena arrivato in città, entra in contatto con le Ancelle della Carità e con Madre Eugenia Menni, figura carismatica e lungimirante. All’epoca Tarantini era coinvolto nel Movimento Popolare, un gruppo di giovani animati dal desiderio di dare corpo a una presenza nella società attenta alle persone e ai bisogni reali. Non avevano nulla: né soldi, né sede, solo tanta passione ideale.
«Ci guardò e disse: “Io tifo per voi”. Ma non era un tifo generico: ci diede un terreno, una casa, una fiducia concreta. Senza di lei non avremmo potuto fare nulla».
In via Benacense, Madre Eugenia mise a disposizione gratuitamente uno stabile che divenne il cuore delle loro attività sociali. «Ci ospitava senza chiedere nulla, ci sosteneva senza pretendere spiegazioni. Credeva in noi. Ma non solo a parole; con i fatti». Le Ancelle della Carità non offrivano solo spazi: offrivano legami, relazioni, vicinanza. Quel gesto, apparentemente semplice, diede origine a un’amicizia che durò nel tempo.
Ogni anno, tra l’Immacolata e il Natale, Tarantini portava a Madre Eugenia un cesto di frutta. Era un momento atteso, quasi rituale. Si parlava del passato, ma anche del futuro. Di progetti, di idee. E fu in uno di questi incontri che lei gli confidò un sogno: «Voglio fare un ospedale. Bello. Aperto a tutti. Non solo per fare beneficenza, ma per fare eccellenza». Aveva una visione precisa e profetica.
«Diceva: La sanità pubblica come l’abbiamo conosciuta finora in futuro non potrà reggere. Diventerà insostenibile, mentre nel contempo si faranno largo nuovi operatori privati più attenti al business che a offrire un servizio per tutti. Noi dobbiamo fare qualcosa che stia nel mezzo: un’opera che tenga insieme giustizia e bellezza, carità e competenza».
Da quel sogno nascerà Poliambulanza per come la conosciamo oggi. Un ospedale non profit, fondato su un’etica dell’accoglienza e dell’eccellenza, capace di unire tecnologia e umanità, cura e visione sociale. Un luogo dove l’idea di “cura” non si riduce al trattamento, ma si estende alla relazione.
A questo orizzonte appartiene anche l’incontro con Giuseppe Camadini, notaio, uomo delle istituzioni e figura centrale nella vita culturale e religiosa di Brescia. Per decenni punto di riferimento per realtà come la Banca di Valle Camonica, l’Università Cattolica e l’editrice La Scuola, Camadini è stato presidente della Fondazione Tovini e dell’Istituto Paolo VI. Schivo e rigoroso, con una visione profonda del bene comune.
«Era un uomo solo, ma con una visione larghissima. E anche lui si affezionò a me. Mi chiamava ogni 18 dicembre per farmi gli auguri di San Graziano».
Camadini e Madre Eugenia non si conoscevano forse direttamente, ma condividevano un’identica radicalità etica. «Avevano lo stesso sguardo: cercavano il bene, ma con rigore e concretezza. E anche lui, ogni volta che andavo via da casa sua, mi faceva recitare l’Ave Maria. Proprio come faceva lei».
«Recitiamo insieme l’Ave Maria. E affidiamo tutto alla Madonna», ripeteva. Un gesto semplice, ma che restava addosso. Un gesto che racchiudeva il senso più profondo di quella relazione: la cura per l’altro, la fede, la fiducia».
Tarantini racconta questi ricordi con gratitudine e con un senso di responsabilità profonda: «Oggi vengo in Poliambulanza e vedo ancora qualcosa di quello spirito. Lo vedi nei volti, nella gentilezza. Lo respiri. Ma mi chiedo: chi lavora qui sa davvero che fa parte di una grande storia?».
«Se davvero tutti portassero dentro quello spirito, non solo ne guadagnerebbe Poliambulanza, ma ne guadagnerebbero loro. Come persone».
Una memoria, quella di Madre Eugenia e di Camadini, che non è nostalgia. È una traccia. È l’origine di una cultura organizzativa fatta di prossimità, visione, coraggio. Quella cultura che ha permesso a Poliambulanza di diventare ciò che è: un luogo di eccellenza clinica, ma anche di umanità. Un ospedale che – come racconta Tarantini – accoglie senza differenze, dove «il magistrato e l’imputato, il medico e il malato, alla fine, sono nella stessa stanza. E ci ricordano che siamo tutti sulla stessa barca».
Ed è qui che la storia personale si fa memoria condivisa. È qui che le radici diventano futuro. «Quello spirito va custodito e riattualizzato. Non si tratta di ripetere le stesse forme, ma di riconoscerne la sostanza. La fede operosa, la visione del bene comune, l’amore per l’umano».
Oggi, in un mondo troppo spesso attraversato dalla cultura dell’efficientismo a tutti i costi e del cinismo, il messaggio di queste due figure sembra ancora più attuale. «Quando le persone non si sentono solo curate, ma accolte, allora capiscono che questo posto è diverso. E se ne ricordano».
«Quello che costruisci con lo spirito giusto, dura. Anche se non lo vedi subito. È come la cupola di San Pietro: chi ha iniziato a costruirla sapeva che probabilmente non l’avrebbe mai vista finita. Ma ha lasciato qualcosa che attraversa i secoli».
Questa è la vera eredità. Non un edificio. Ma una cultura. Un modo di guardare l’altro. Un modo di stare al mondo. E ogni volta che in Poliambulanza qualcuno offre un gesto gentile, uno sguardo in più, una parola buona, quel seme continua a germogliare.