L’importanza dell’umanizzazione delle cure: la versione di Alessandra Huscher

Mettere l’essere umano al centro dei percorsi di cura è un’evoluzione necessaria per favorire il bene dei pazienti

È fondamentale fermarsi a osservare l’essere umano oltre il paziente, così da inserire anche il concetto di umanità all’interno delle strutture sanitarie”. È con queste parole che la Dottoressa Alessandra Huscher, medico responsabile U.O. di Poliambulanza, parla di quella che definisce “un’evoluzione necessaria” all’interno del mondo ospedaliero: l’umanizzazione delle cure.

Un concetto che porta tutto l’atto medico a tenere in considerazione l’interezza della situazione sociale ed emotiva del paziente, andando oltre la condizione clinica. Questo comporta un passaggio fondamentale: non si tratta di curare soltanto una malattia, ma di curare una persona.

L’attenzione al contesto sociale

Molto spesso, quando si inizia un percorso terapeutico, l’attenzione è tutta rivolta più al paziente da curare e alla sua malattia. Tuttavia, il paziente quasi mai vive da solo, ma anzi ha, attorno a sé, una famiglia e una serie di legami personali che sono coinvolti, quanto il paziente, nel percorso di cura e nella sua complessità. Questo si traduce in alcune dimensioni psicologiche che portano le persone che compongono il nucleo ad affrontare insieme la malattia ognuno a modo proprio; ma presenta anche dei risvolti pratici, capaci a loro volta di impattare tanto quanto le precedenti nel percorso necessario a superare la malattia.

Uno degli esempi che meglio aiutano a comprendere difficoltà di questo genere è quello relativo alla logistica: ci sono persone che, per ragioni diverse, possono avere problemi a essere presenti tutti i giorni alla stessa ora nella struttura sanitaria per ricevere le cure di cui necessita. Questa è una componente che spesso viene sottovalutata, ma che è fondamentale analizzare e provare a comprendere al fine di ideare il corretto percorso finalizzato al superamento della malattia. “Questo è uno dei punti su cui lavorare di più in futuro – dice la Dottoressa Huscher – la prossimità è sostanziale per un certo livello di sanità”.

Un altro problema che la Dottoressa evidenzia è quello relativo alla lingua: chi si trova in un ospedale estero potrebbe avere problemi a comunicare e a orientarsi in quel nuovo contesto, e quindi è importante che la stessa struttura tenga conto di questo e si prendesse cura anche di questi aspetti.

L’importanza del saper comunicare

All’interno di un percorso che vuole mettere al centro delle attenzioni la persona, e non solo la malattia, un ruolo molto importante viene giocato dalla comunicazione. “Una certa sensibilità nel comunicare con i pazienti – dice la Dottoressa – è un qualcosa di relativamente nuovo, che solo di recente appartiene alle generazioni di medici precedenti a questa”. Tuttavia, rappresenta un elemento determinante: è necessario saper attuare modalità di comunicazione differenti a seconda del paziente che si ha davanti. In base al soggetto, che sia una donna o un uomo, un giovane o un anziano, è fondamentale saper declinare il proprio modo di comunicare, soprattutto quanto ci si trova davanti a decisioni molto importanti da prendere insieme, come ad esempio quale percorso di cura intraprendere. “In questo – spiega la Dottoressa – la comunicazione diventa una parte determinante nelle scelte e nella direzione in cui muoversi”.

All’interno delle strutture sanitarie, davanti a malati oncologici, c’è grande competenza su quali strategie sanitarie siano più efficaci e adatte all’età della persona, mentre ancora manca ogni riferimento quando si tratta di fronteggiare problematiche sociali e personali molto delicate.

Per questo l’umanizzazione delle cure è un percorso che richiede capacità e competenze tipiche di uno psicologico o addirittura di un antropologo: è necessario misurare la componente umana e sociale e i medici, ad oggi, non hanno completamente sviluppato questo genere di abilità. Quando si comunica al paziente una diagnosi, questa può essere percepita come un punto di non ritorno, un momento in cui domina l’incertezza, in cui tutto viene messo in discussione. E quindi proprio per questo è presente un percorso di supporto psicologico, al paziente e alla sua famiglia, che tenga conto della singolarità di ogni caso.

Alcune possibili soluzioni per umanizzare la cura

Credo che una soluzione – dice la Dottoressa – risieda nel terzo settore, nelle comunità di prossimità”. Quando la famiglia, per ragioni che possono essere economiche e sociali, non è in grado di supportate adeguatamente il malato, si potrebbe cercare aiuto in un maggior sviluppo della medicina di prossimità: sempre più persone rinunciano a curarsi perché non riescono a stare dietro alla quotidianità che certe diagnosi richiedono, e quindi poter contare su una comunità, su un supporto del terzo settore, potrebbe essere determinante.

In quest’ottica, un ruolo importante può essere giocato da quelli che la Dottoressa Huscher definisce i “pazienti esperti”, persone che hanno già conosciuto sulla propria pelle quella malattia e quindi possono dare un supporto, emotivo e pratico, a chi inizia il proprio percorso di cura. Si può così creare un legame tra chi ci è già passato e chi deve invece passarci, così da convertire un discorso tecnico e medico in uno esperienziale, in modo da aiutare non solo il paziente, ma anche la struttura sanitaria, traducendo le necessità e le difficoltà del malato.

Un altro elemento da aggiungere è quello della telemedicina, finalizzata a diminuire la necessità degli spostamenti personali attivando alcune tipologie di gestione così da scaricare chi ha troppo lavoro. Ad esempio, le prenotazioni delle visite: avere più postazioni di prossimità può aiutare, sia nel comprendere cosa fare sia nell’organizzare la visita stessa.

“In ogni caso – conclude la Dottoressa – serve una visione di insieme, sferica, che possa tenere conto di tutti questi aspetti così da creare una rete in grado di aiutare, nel concreto, tutti quelli che ne hanno bisogno”.

A queste considerazioni la Dottoressa Huscher è giunta grazie a tante e differenti esperienze, in cui ha sempre portato avanti una precisa ricerca dell’umanità all’interno della professione medica.

Questo emerge chiaramente nella sua gestione della Breast Unit di Poliambulanza, unità capofila di quelle multidisciplinari e in cui ha sempre cercato di mettere al centro il paziente, andando anche oltre una sorta di “isolamento” che può caratterizzare professionisti di reparti diversi dell’ospedale. Questo ha portato, soprattutto, un netto beneficio per i pazienti, sottolineando una volta di più la centralità della comunicazione e della collaborazione all’interno delle strutture sanitarie, sia con gli altri medici sia con i pazienti.

La bontà del percorso umano e professionale della Dottoressa è rappresentato dal premio, che le è stato assegnato a novembre del 2024, “Donne che ce l’hanno fatta”, un premio che vuole celebrare le figure femminili che si sono fatte notare per la loro determinazione e intraprendenza e che nel corso della loro carriera hanno raggiunto importanti traguardi e posizioni prestigiose. Un premio che ha riempito la Dottoressa di “grande orgoglio”, come ha raccontato.

La Dottoressa ha avuto occasione, nel corso della sua carriera, di confrontarsi con grandi professionisti, su tutto il Professor Umberto Veronesi, di cui ha conosciuto la visione olistica della medicina durante i suoi anni allo IEO.

Tra i tanti, il riconoscimento che la Dottoressa ricorda con maggior soddisfazione è proprio il “Laudato Medico di Fondazione Veronesi”, ricevuto nel 2020, durante il Covid; un premio basato sulle indicazioni dei pazienti, che hanno quindi riconosciuto nella Dottoressa Huscher una figura non solo estremamente competente, ma anche capace di porre cura e attenzione sugli aspetti umani, personali e psicologici dei suoi pazienti.